I Relazione dell’evento: Cattedrali nel deserto

Rileggere la storia dei cinquanta anni del centro siderurgico a Taranto, il quarto italiano dopo Bagnoli, Piombino e Cornigliano, impone un adeguato metodo nello storicizzare gli avvenimenti che si sono succeduti. Il rischio potrebbe essere quello di una visione parziale relegando questa grande vicenda economica e sociale solo agli ultimi importantissimi anni di crisi generale, economica, politica, sociale e morale che hanno visto la società civile tarantina in gran parte protagonista del cambiamento oggi ritenuto da tutti, così sembra, indispensabile. La chiave di lettura, che si propone, anche da parte di una persona come me che ha vissuto ed operato per trenta anni in quella azienda, non può che essere critica. E’ necessario, però, cogliere le contraddizioni di questa vicenda per capire la maturazione di quei processi che oggi viviamo e subiamo. Non si può non partire dal rapporto che questa fabbrica ha avuto con il territorio che l’ha ospitata ed ospita, ovviamente insieme ad altre realtà industriali quali la raffineria Eni e la Cementir, anche esse in origine di emanazione statale. Un rapporto che si è fondato per decenni su un compromesso, reso tacito anche dall’indifferenza colpevole di tanti, tra una fonte al tempo stesso di vita…il lavoro e di morte…gli infortuni mortali, le malattie professionali ed ambientali maturate nel tempo. In realtà si tratta della più grande “questione” politica dei nostri tempi, quella ambientale, davanti alla quale le Istituzioni locali, regionali e nazionali stanno mostrando la loro assoluta inadeguatezza nel darle immediate risposte col rischio di non giungere a condivise soluzioni. Di certo si tratta del fallimento di un modello di sviluppo economico e sociale che qui da noi fu imposto ed accettato cinquanta anni fa basato sull’uso indiscriminato del luogo, dei beni comuni dell’aria, dell’acqua, del suolo e sottosuolo e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Un processo difficile sin dai suoi inizi quando vide questa realtà industriale nascere il 4 luglio del 1960 a seguito di un’ampia discussione mossa dalla necessità, nell’Italia della fine degli anni cinquanta, di affidare all’IRI ed alla Finsider, quindi al capitale pubblico, il compito di industrializzare il mezzogiorno d’Italia e superarne la sua storica arretratezza economica e sociale per dare risposta alla impetuosa richiesta di beni di consumo (auto ed elettrodomestici) che veniva dal mercato nazionale interno. Si viveva il boom economico del Nord e l’opinione allora era che l’industria di base avrebbe potuto svolgere un’azione propulsiva anche verso altre iniziative economiche sul territorio, creando il cosiddetto “indotto”, andando oltre l’utilizzo della sola manodopera locale. Ciò avvenne ma con modestissimi effetti, al punto di coniare successivamente, non solo per Taranto ma soprattutto per essa, la definizione di “cattedrale nel deserto”…meglio dire “cattedrale che creava deserto” e successivamente “città dell’acciaio” o “monocultura dell’acciaio”.

Tante definizioni per ribadire una sorta di divisione nazionale del lavoro in cui la crescita di questo stabilimento, con la sua area a caldo altamente inquinante, divenne, ed oggi lo è ancora di più, sempre più funzionale anche alla lavorazione fredda, molto meno impattante, dell’acciaio in altre parti dell’Italia settentrionale e quindi anche dell’altrui ricchezza. Non la soluzione di una condizione storica del Mezzogiorno d’Italia ma il suo aggravarsi. Tale opzione, inizialmente dettata dal bisogno, quindi, di dare un’economia completa al mezzogiorno, si manifestò col tempo un chiaro fallimento. La scelta di Taranto fu ispirata da diverse ragioni ed opportunità di tipo geografico, anche, se ufficialmente, per dare risposte ad una realtà che viveva la crisi della sua cantieristica navale e della difficoltà di un Arsenale militare che nei fatti, dal dopoguerra, risultò essere la principale fonte di reddito dei tarantini, insieme, ovviamente, alla miticoltura, l’itticoltura, la pastorizia e l’agricoltura ancora di tipo latifondista. Una situazione molto difficile con alta disoccupazione ed emigrazione, una realtà impoveritasi, depressa, ma che divenne, nei fatti, fonte di lavoro e di vita, depredata nel suo capitale naturale ed umano da questi insediamenti industriali. Non fu, oggi possiamo dirlo, una concessione generosa dello Stato perché Taranto, ma questa non è una novità nella storia millenaria della città, aveva una sua posizione naturale strategica per ragioni militari ma poteva esserlo anche per un porto industriale tutto da costruire. Inoltre per la possibilità di un ciclo lavorativo di quel genere di avere due prelievi da punti poco distanti, ma apparentemente diversi, di acqua di mare, dal mar Piccolo e mar Grande e nella grande quantità necessaria e oltre alla possibilità senza limiti di prelievo dal sottosuolo e dai fiumi vicini di acqua dolce, di cui Taranto è molto ricca, anche essa necessaria al ciclo. Oltre a ciò il calcare occorrente per la lavorazione della materia prima prelevata da una cava verso Statte ancora attiva. Non ultima, l’occasione di avere l’indispensabile forza lavoro a basso costo, rispetto al resto dell’Italia, nel meridione, per la presenza di “gabbie salariali” non esistendo allora contratti sindacali nazionali. Il progetto iniziale prevedeva una capacità produttiva di poco più di due milioni di ton/annui di acciaio, cinque volte meno di quello attuale, mentre lo stabilimento entrò in pieno regime nel ’65 con l’inaugurazione dell’allora presidente della repubblica Giuseppe Saragat.

Facile la considerazione che se fosse rimasto di tale grandezza il suo destino sarebbe stato diverso per il suo impatto ambientale rispetto a quello attuale. Il grande errore, però, dovuto al gioco sin troppo facile per quei tempi dell’economicità dell’impresa, fu quello di risparmiare economicamente soprattutto nell’ubicazione degli impianti più inquinanti, quelli dell’area a caldo, collocandoli nei pressi del quartiere Tamburi, più vicini al porto. Materie prime per i parchi minerari, cokerie, altiforni ed acciaierie sono state e restano, nei fatti, grandi discariche a cielo aperto. Il parco minerario, con i suoi enormi cumuli è il più vicino al centro abitato ed occupa oggi un’area di 660.000 metri quadrati. Va detto che tutte le forze economiche, politiche e sociali furono concordi e persino i grandi proprietari terrieri tra loro in acerrima competizione per i benefici dell’esproprio dei loro campi. L’estensione della fabbrica da quaranta anni, dopo il raddoppio, è ancora oggi di 15 milioni di metri quadrati due volte la città. Uno dei sindaci tarantini di quegli anni, Angelo Monfredi, in una sua intervista molti anni dopo, affermò che il bisogno di lavoro era talmente tanto che avrebbero dato il permesso di fare l’impianto anche in piazza della Vittoria, nel cuore della città. Doveroso ricordare che fu solo Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, all’epoca del raddoppio, a definire invece quello tarantino un «processo barbarico di industrializzazione». E scriveva che l’Italsider «tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera». L’ambiente che oggi è visto come una grande emergenza sociale, politica, sanitaria, culturale, economica e morale, allora coincideva concettualmente con il “paesaggio” che nei fatti andava modificandosi e che comunque è tutelato dalla Costituzione italiana. C’è il pezzo iniziale di un documentario, rintracciabile oggi su Internet, “acciaio tra gli ulivi” della fondazione Ansaldo di Genova che parla ai nostri cuori di tarantini ed alle nostre menti, particolarmente chi per ragioni di età ricorda oggi quei luoghi, di un “paesaggio che cambia” nel nome di un progresso ineluttabile. In esso si vedono i Tamburi com’erano allora, via Orsini, le ultime abitazioni poste in una via assolata che, costeggiando l’acquedotto medioevale, conduce a Statte. In lontananza un treno che fischia e viaggia verso la città di Brindisi, un gregge che pascola ed un campo sterminato di uliveti secolari. Subentra, nel documentario, l’immagine di ruspe gigantesche che buttano giù ulivi e masserie per fare spazio alle strutture ciclopiche del futuro tubificio, prima e successivamente altiforni, cokeria ed acciaieria. I primi anni sessanta produssero rapidi cambiamenti nella società tarantina, la scuola ne ebbe effetti tumultuosi, l’avviamento professionale e l’istituto tecnico “A. Righi” raddoppiarono il numero dei ragazzi iscritti, i genitori videro nell’industria il futuro occupazionale dei figli nella propria città, io fui uno di quelli. Operai assunti negli anni cinquanta nella Fiat, in altre aziende del Nord o emigrati all’estero colsero l’occasione per ritornare, l’industria di Stato dava la certezza di un futuro anche qui da noi. Lasciarono il loro lavoro, pescatori, mitilicoltori, contadini e lavoratori del terziario per fornire manodopera alla nuova fabbrica. Verso la fine degli anni sessanta la capacità del centro fu portata a circa quattro milioni di tn/annui e tra il ’70 ed il 74’ circa 11 milioni di tn/ annui, quegli attuali, con l’aumento imponente dei cumuli di minerale e la costruzione di inefficaci barriere per le polveri del parco minerario consistenti nelle cosiddette “colline ecologiche”. Facile affermare che furono raddoppiate e triplicate le emissioni inquinanti sul territorio e che con il passare degli anni provocarono inesorabilmente le malattie professionali ed ambientali. Da tenere presente anche la nascita della Cementir, altra azienda pubblica, che lavorava i sottoprodotti siderurgici per farne cemento e l’Agip, la raffineria petrolifera. Le statistiche impietose rese note dalle indagini epidemiologiche negli ultimi mesi rilevano la drammaticità di questo processo. Il raddoppio produsse mutamenti economici e sociali di rilievo per la comunità tarantina, provinciale e regionale, davvero una distribuzione di vita e di morte. La conquista da parte dei lavoratori di quello Statuto dei diritti che oggi molti vorrebbero cancellare perché considerato un impedimento allo svolgersi della concorrenza del mercato globalizzato, dell’abolizione delle gabbie salariali, del conseguimento della scala mobile che tutelava i salari dei metalmeccanici. L’avvio necessario di una rivendicazione tutta interna alla fabbrica del diritto alla sicurezza ed all’ambiente di lavoro, gli operai morti, nella fase del raddoppio ed anche dopo, furono tantissimi, si incominciava a parlare di omicidi sul lavoro e di malattie professionali che maturavano. La città viveva finalmente quel benessere generale derivante dai salari dei tantissimi suoi abitanti lì presenti, il 70% dei circa 30.000 occupati tra diretti ed indiretti.  Le retribuzioni salariali di livello europeo posero la città ad un grado di prosperità complessivo nei vertici nazionali aprendo differenze anche con il circondario. Pure l’atteggiamento dell’azienda cambiò in quegli anni, chi ha memoria o ha vissuto parte della sua vita in quella fabbrica sa bene che l’Italsider è stata altra cosa rispetto all’Ilva di Emilio Riva. Essa fu produttrice di cultura oltre che di acciaio e di inquinamento, ovviamente, di sostegni ad iniziative sul territorio, di rispetto per le Istituzioni cittadine e verso le organizzazioni dei lavoratori, di attenzione al mondo della scuola, realizzò colonie per i figli dei dipendenti e facilitando la presenza di circoli e dopolavori, costruì un rapporto positivo con altre realtà locali.  Ci fu nel ‘77 una drammatica disoccupazione di ritorno che impose alla città una “Vertenza Taranto” per ricollocare 6.300 addetti di esubero che furono però riassorbiti nell’azienda e nell’indotto, non in altre attività produttive. Furono fatte, all’interno di quella controversia, le prime denunce sull’inquinamento legandole alle morti sul lavoro ed alle condizioni di vita dei lavoratori. Infine giunse la crisi dell’acciaio, il deficit dei bilanci aziendali crescenti, una parte dell’indotto si rivelò di tipo parassitario ed infine anche l’infiltrazione della malavita organizzata nel traffico dei rottami ferrosi. Risalgono ai primi anni ottanta le prime indagini dell’attuale procuratore capo della Repubblica dott. Franco Sebastio contro l’inquinamento dell’Italsider, allora non esistevano leggi italiane ed europee a tutela dell’ambiente. Successivamente negli anni novanta egli intervenne in fabbrica per imporre la chiusura della palazzina-lager, il Laf, in cui Emilio Riva teneva confinati operai, tecnici e quadri, perché, a suo parere, inutilizzabili nel suo processo produttivo. Per questa infamia nel 2001 lui ed altri dirigenti dello stabilimento furono condannati in via definitiva.

Nel 1980 la CECA a fronte di una sovrapproduzione di acciaio dichiarò lo stato di crisi manifesta, si ebbero i primi effetti a Bagnoli e Cornigliano. A Taranto la riduzione di forza lavoro imposta dall’Europa fu affrontata con i provvedimenti di prepensionamento a 55 anni prima e 50 anni dopo. All’atto della privatizzazione del 1995 la forza lavora fu ridotta a circa 12000 unità, mentre Bagnoli veniva dismessa un po’ prima per “salvare” il centro siderurgico di Taranto.

Emilio Riva, acquisì, ad un prezzo irrisorio ed a spese di un bene pubblico il più grande centro siderurgico europeo, al punto di rientrare rapidamente dal costo dell’operazione. E’ ancora oggi il decimo produttore al mondo e da sempre è uno straordinario commerciante di acciaio. Egli in un’intervista al Sole 24 Ore agli inizi dell’attuale crisi, affermò che quelle del settore siderurgico le aveva attraversate tutte dal 54 in poi, che gli sono servite, a suo dire, per dismettere od acquisire nuovi impianti e rendere più forte la sua azienda. Disse anche che non si legava a nessun impianto o realtà territoriale, né agli uomini o alle cose, questa era la sua regola. Ha conquistato con lo stabilimento di Taranto quote importanti del mercato europeo in virtù dei costi contenuti della sua manodopera siderurgica, la peggio pagata della Comunità, e della possibilità per almeno tredici anni, dal 95, di produrre inquinando senza alcun controllo mentre quello sugli operai e la gerarchia aziendale fu pressoché totale. Sarebbe interessante conoscere oggi il suo pensiero in merito, nei grigi giorni della permanenza forzata nella sua abitazione. Da ricordare l’atteggiamento sprezzante verso questa città che a suo parere doveva essergli grato. In un suo contributo alla stesura del libro “Un nodo d’acciaio”, l’attuale direttrice del Corriere del giorno Luisa Campatelli, ricorda un’intervista di Riva alla Gazzetta del Mezzogiorno nel 2004 in cui affermò che “Taranto non potrà mai diventare una città turistica. In due giorni l’hai vista tutta. Se l’Ilva chiude ai tarantini non toccherà che fare i bagnini”. Tale dichiarazione si commenta da sé.

Per tredici anni, sino al 2008, Riva non ha tenuto, quindi, in nessun conto la città se non solo per alcune sue elargizioni economiche di tipo clientelare su cui ancora la magistratura indaga.

Oggi si parla dell’imminente scadenza della nuova Aia dell’Ilva, atto necessario anche alla luce delle grandi novità di questi ultimi due mesi percorsi da tanti avvenimenti che stanno segnando una svolta epocale per la nostra città e non solo. Un processo che viene da lontano, accelerato dal doveroso intervento della magistratura che rivela l’intreccio chiaro di come oggi possa presentarsi la “Questione Ambientale” nella nostra città, come l’insieme dei fattori riguardanti aspetti storici, come quelli prima descritti, di legalità, sociali, epidemiologici, politici, culturali, economici e morali. L’associazione Libera, nomi e numeri contro le mafie, in occasione del sessantesimo della Costituzione italiana, agli inizi del 2008, promosse nelle scuole medie e superiori della città progetti riguardanti tale avvenimento e chiedendo agli studenti di adottare un diritto. Fu una sorpresa constatare che fu scelto in gran parte delle classi quello relativo all’ambiente attraverso il diritto alla salute, alla vita, al lavoro ed alla dignità dei cittadini. Quella che per noi rappresenta oggi il più grande problema sociale era già allora sentito dal mondo della scuola ed i giovani furono i principali protagonisti a novembre di quell’anno della prima grande manifestazione nella nostra città. Non si trattava di discutere del domani ma si reclamava l’oggi. A maggio di quell’anno Libera presentò anche le sue osservazioni all’Aia per l’azienda Ilva insieme alle altre associazioni, comitati, cittadini, professionisti, scegliendo il diritto al lavoro legandolo in modo imprescindibile a quello dell’ambiente dei luoghi di produzione, quindi alla salute ed alla sicurezza di lavoratori affrontando in questo modo la questione ambientale in tutti i suoi aspetti. Sarebbe facile affermare che salvaguardando l’ambiente di lavoro, là dove si crea l’inquinamento che noi tutti subiamo, si tutela la salute dei lavoratori e di conseguenza quella dei cittadini residenti nella città. Verrebbe da dire che liberandosi loro per prima dei problemi che segneranno con grande probabilità la loro intera esistenza, libererebbero tutti noi. Ma ciò non è scontato, nessuna specifica rivendicazione è stata portata avanti mentre questa proprietà ha fatto scempio dei diritti della Carta in questi 17 anni di sua permanenza da noi. L’Ilva non ha tenuto conto che la Costituzione prevede, oltre quello del lavoro, che deve essere dignitoso ed adeguatamente remunerato, cosa che non è, anche la vita e la salute legandolo al dovere del fine sociale della proprietà e dell’impresa che “non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41).
E’ doveroso ricordare oggi che dal primo gennaio di quest’anno al 7 ottobre scorso sono morti in Italia sui luoghi di lavoro 481 lavoratori ( tutti documentati) e sono oltre 930 dall’inizio dell’anno se si aggiungono i lavoratori deceduti in itinere o sulle strade, si tratta di morti assolutamente evitabili, non segnate dal destino ma derivanti dall’insicurezza del loro “ambiente di lavoro”. Delle morti dei lavoratori migranti, lavoranti in nero, invisibili ad ogni statistica, non si ha notizie.  Dati dell’osservatorio nazionale, numeri impietosi che dimostrano come non ci sia crisi che tenga per la salvaguardia della vita dei lavoratori. La loro visibilità e le loro problematiche sono state per queste ragioni anche da noi spesso legate alle loro vicende tragiche, solo per breve tempo hanno occupato le prime pagine di giornali e televisioni e l’attenzione dei più. Il prezzo di vite umane per infortuni sul lavoro dall’origine dell’Italsider Taranto ad oggi supera le cinquecento unità, non si ha il numero dei decessi per malattie professionali e questo non è il prezzo da pagare per il progresso, come si diceva un tempo, ma per il profitto massimo a tutti i costi. Oggi invece gli operai sono tornati nell’attualità locale e nazionale per alcune, plateali, iniziative organizzate e finanziate da questa proprietà contro l’autonomia della magistratura, come è avvenuto a luglio, una città assediata da un esercito di migliaia di solitudini. Si continua a voler ignorare, nonostante tutto, la relazione tra l’ambiente interno alla fabbrica, le sue problematiche, con quello esterno ad essa, ciò anche da parte dei Ministeri della salute e dell’ambiente. Si è dovuto attendere invece la recente ordinanza del Gip Todisco di Taranto, a seguito di una indagine sanitaria che ha confermato scientificamente la relazione di decessi avvenuti fuori dalla grande fabbrica con inquinanti prodotti dalla sua area a caldo, per evidenziare la comunanza dei diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione, quello al lavoro ed alla salute in primis. Questi giovani lavoratori, tutti, devono invece rivendicare, oggi più che mai, il diritto alla loro salute e sicurezza, unitamente alla loro dignità di lavoratori e di cittadini, quindi ad un lavoro certo, sicuro e pulito. La questione ambientale e quella occupazionale, finalmente, diventano facce della stessa medaglia e non fattori in competizione tra loro, né tantomeno oggetti di scambio, sono semplicemente due diritti da rispettare.
I lavoratori di Taranto sono anche i cittadini che vivono doppiamente le difficoltà derivanti dai processi delle produzioni e dall’inquinamento prodotto da essi. Devono sentire la necessità e la loro personale responsabilità di poter essere partecipi di uno sviluppo sostenibile con al centro delle attività l’ambiente di lavoro, la sua sicurezza unita a quella della gente che vive nel quartiere a ridosso delle aziende. E’ indispensabile, perciò, un diverso rapporto tra fabbrica e territorio di pari dignità tra chi ha la responsabilità dei lavoratori nell’azienda e chi rappresenta i cittadini nelle Istituzioni, quindi la loro salute e benessere. Questo, è amaro dirlo, non è avvenuto sinora. E’ necessario conoscere non solo le origini delle malattie professionali, ma fare un censimento tra le decine di migliaia di lavoratori che sono passati attraverso quel ciclo produttivo che sono stati segnati nella loro esistenza e poter rendere giustizia loro. Occorre rendere trasparenti i dati e le informazioni che l’azienda detiene per una migliore ed efficace prevenzione. Tutto ciò alla luce della gestione e dei doveri dell’Ente locale per la tutela della salute dei cittadini e per le importanti novità contenute nella legge 123/07 che esige un modello di gestione integrata della prevenzione dei settori produttivi. Si richiede un grande impegno, economico e morale, per contribuire alla crescita della responsabilità sociale, per costruire qui da noi un esempio di buona pratica di cittadinanza attiva in una realtà che sinora ha visto grandi crescite economiche di tutte le aziende multinazionali qui presenti a fronte dell’incremento inesorabile della povertà economica e morale del territorio. Che fare? La conclusione è che sarà impossibile per chiunque emettere l’Autorizzazione Integrata Ambientale per l’Ilva di Taranto senza avere verificato rigorosamente l’eliminazione delle anomalie ed inadempienze nell’ambito della sicurezza e dell’ambiente nel posto di lavoro, recependo in toto la disposizione del Gip della Procura di Taranto. Nella città c’è molta tensione su questi temi, è diffusa la sensazione di un dilemma morale nell’alternativa tra salute e lavoro ma è falso in quanto i due diritti vanno insieme e mai separati. La salute da fatto individuale del singolo lavoratore o cittadino diventa finalmente attraverso questa ordinanza un bene collettivo e pubblico secondo l’art. 32 della Costituzione italiana. C’è la consapevolezza sempre più diffusa tra la gente del drammatico momento. La voglia di partecipare ad un reale cambiamento nella città vince finalmente sulla solitudine che chiude nel privato delle nostre famiglie la sofferenza per le tante malattie e morti che si sarebbero potute evitare. La grande manifestazione – fiaccolata di venerdì scorso a difesa della autonomia della magistratura ed in memoria della vittime dell’inquinamento nella città ha visto una partecipazione di diecimila persone evidenziando il grande cambiamento in atto della città.

Concludo leggendo una parte intensa dell’articolo di Adriano Sofri su Repubblica di alcune settimane addietro:

“C’è una piazza a Taranto, nel rione Tamburi. È modesta, ma ha tre monumenti. Il primo è un’edicola con una Madonnina, bisogna spolverarla ogni giorno. Il secondo è una grossa targa di ferro, corrosa e smangiata. Dice:

“Nei giorni di vento nord – nord ovest veniamo sepolti da polveri di minerale
e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale “Ilva”.
Per tutto questo gli stessi “maledicono” coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare.”

Maledicono è inciso in caratteri più grandi.

 

Fra coloro che eressero l’edicola e affissero la targa c’era Giuseppe Corisi, operaio dell’Ilva, comunista e cattolico, consigliere di circoscrizione e animatore del Comitato per l’ambiente. Il 14 febbraio scorso ha saputo di avere un cancro ai polmoni, l’8 marzo è morto. Prima ha dettato il testo del terzo monumento, una targa murata sulla facciata di casa sua, al terzo piano, appena sotto la finestra del salotto. Dice: “Ennesimo decesso per neoplasia polmonare. Taranto (Tamburi) 8 marzo 2012”.

 

Giancarlo Girardi

(refe. Ambiente e lavoro di Libera Taranto)

 

 

 

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